Psicologo e Psicoterapeuta, è disabile da quando aveva sei anni. Studiosa di dinamiche psicologiche sottese ad una genitorialità difficile o resa tale per la presenza di un figlio che soffre a causa di una malattia o disturbo, ha lavorato per anni con le associazioni senesi “Sesto Senso” e “Asedo” per facilitare l’integrazione di alunni con disabilità e favorire esperienze di autonomia (housing) per un piccolo gruppo di ragazzi Down. E’ tra i soci fondatori di Codini & Occhiali. Scopriamo la generosità e la forza della dottoressa Rigacci volontaria speciale.
Capelli biondi e mossi, sguardo sicuro e sorriso accattivante: incontriamo la dottoressa Cristina Rigacci durante una cena di solidarietà. Poche battute e la sicurezza di essere difronte a una persona speciale, di quelle che fanno la differenza.
“Sono nata e cresciuta in una famiglia dove di volontariato se ne è sempre parlato. “Se fai del bene, il bene ritorna”: era una delle frasi che sentivo più spesso. E poi, al volontariato io devo davvero molto: se ho potuto effettuare certi studi accademici sulla disabilità è stato proprio grazie alla disponibilità trovata nelle associazioni del terzo settore attive nel mio territorio (Associazione Sesto Senso e A.s.e.d.o in primis). Quindi, acquisite certe competenze e conoscenze, perché non ricambiare, in qualche modo, il piacere fattomi? Con l’Associazione Sesto Senso, per anni, ho portato avanti un progetto di supporto alle scuole per facilitare l’integrazione di alunni con disabilità e, con/per l‘associazione A.s.e.d.o ho gestito delle esperienze di autonomia (housing) per un piccolo gruppo di ragazzi Down.
Ma l’impegno della dottoressa non si è mai fermato e continua oggi.
“Più recentemente, quando mi è stato chiesto di essere tra i soci fondatori dell’Associazione Codini & Occhiali, mi sono detta perché no? Imparare a “fare i conti” con un corpo spesso complicato, come nel caso delle sindromi genetiche, o che è fin troppo reattivo (come nell’ADHD), può essere faticoso. Lo so in virtù delle esperienze quotidiane di lavoro con i miei piccoli pazienti disabili ma anche personalmente parlando. Io che convivo con un corpo malmesso da 37 anni posso garantire che non è sempre una “convivenza armoniosa” ma ci si può fare.
“Solo se il limite lo si guarda e si va oltre diventa possibilità illimitata” (Crocetti, 2022): questo messaggio rispecchia ciò che mi muove – e mi ha sempre mosso – nel mio lavoro e nella mia attività di volontaria; quello che spero di trasmettere alle persone che incontro in questo straordinario ambiente fatto di sofferenza ma anche di tanta bellezza e di unicità soggettive incredibili che aspettano solo di essere scoperte e, a volte, trovate.
Il corpo, l’unicità della persona. Dottoressa ci spieghi meglio questi concetti.
Un grande psicoterapeuta italiano ci insegna che il nostro corpo, il sé corporeo è il luogo della sacralità pre-etica di ciascun individuo (Crocetti, 2022) quindi la base dell’identità di ognuno di noi. Già questo dovrebbe farci intuire come per quelle persone, che per un motivo od un altro, si trovano a fare i conti con un corpo (o con parti di esso) reso inabile, la fatica psicologica, oltre che fisica, può essere di notevole rilevanza. In effetti la condizione di disabilità crea sofferenza e disagio: lo dicono anni di studi scientifici di rilevanza nazionale e internazionale. Ma, gli stessi esperti, fanno presente che non è solo sofferenza c’è anche tanto altro. Per quanto mi riguarda sono felice di aver avuto il modo di vederlo nella mia vita personale e professionale di Psicologo e Psicoterapeuta. Preciso subito che, personalmente, non sposo l’idea della diversabilità o del diversamente abile rimanendo fedele al concetto di disabilità perché, a mio modestissimo parere, nel primo ci vedo un tentativo di edulcorazione, a tratti di negazione, di una condizione, quella del disabile, che per la sua verità ha dei limiti ma già a priori e a prescindere delle abilita ma, soprattutto, delle potenzialità. Perché dover, un po’ forzatamente, mettere in risalto solo le capacità esistenti e non quelle mancanti? Ovvio, anche fare solo l’opposto non sarebbe opportuno! Forse vanno semplicemente guardate entrambe e ad entrambe dato il giusto nome e peso”
Scendiamo su un piano personale e le chiediamo della sua disabilità.
Di quando mi sono ammalata ricordo poco. Tuttavia non ho dimenticato la fatica di dover imparare fare le cose del banale quotidiano usando una parte sola del mio corpo e che avrei voluto una vita uguale a quella dei miei coetanei. Io crescevo non più come era stato fino a quel momento e non più come gli altri, bensì con delle diversità evidenti nel mio corpo. Ancora ho in testa le preoccupazioni mie e anche dei miei familiari. Tuttavia, con il trascorrere del tempo ho avuto la possibilità di vedere anche un qualcosa di bello: non c’era solo quella sofferenza ma una nuova normalità che giornalmente si costruiva intorno a me. Grazie all’aiuto di professioniste a me molto care ho iniziato a fare quel percorso esistenziale necessario e indispensabile per vivere con maggiore serenità: conoscere la mia problematica ma anche me al di là di essa. Non saprei dire neppure come, e mi scuso di questo, ma ho capito che si poteva vivere meglio integrando le due parti di me (quella rimasta sana e quella intaccata in maniera irreversibile dalla malattia). Del resto, non a caso, il simbolo dell’equilibrio è il Tao? E poi chi è che non ha delle parti indesiderate (più o meno invalidanti) con cui fare i conti? Sarebbe ingiusto, presuntuoso e forviante credere che solo in certe condizioni di gravità si annidi la sofferenza o la necessità di creare un equilibrio maggiormente stabile e costruttivo.
Perché psicologo e psicoterapeuta a contatto con l’handicap?
“Conclusi gli esami universitari alla Facoltà di Psicologia, come ogni altro studente mi recai dal relatore della tesi con tante idee sulla mia laurea ben lontane dal mondo della disabilità. Mi venne invece proposto un lavoro di ricerca – poi effettivamente svolto e anche proseguito durante successivi incarichi accademici – sulla personalità, lo stress e il supporto sociale di genitori di ragazzi/e con disabilità.
Sempre per un fortuito caso, oppure no, quando dovevo iniziare a scrivere la tesi della Specializzazione in Psicoterapia Cognitivo-comportamentale, mi stavo cimentando nell’analisi statistica di aspetti di personalità di genitori di minori autistici. Pensai “ci aggiungo qualcosa inerente uno dei protocolli terapeutici tipici del cognitivismo (il Parent training) e ne esce anche la mia tesi”. Sono diventata, infatti, psicoterapeuta con una tesi sperimentale avente come titolo “Psicopatologia e psicoterapia dei genitori di ragazzi disabili”.
Anche per la seconda Specializzazione in Psicoterapia Psicoanalitica dell’Infanzia e dell’Adolescenza, discutendo tra i vari argomenti possibile oggetto della mia tesi di specializzazione, per una serie di fattori, ho optato per un lavoro che mi permette di approfondire ancora meglio certi fenomeni legati alla genitorialità arrivando dove non sono mai arrivata: studiare le dinamiche psicologiche sottese ad una genitorialità difficile o resa tale per la presenza di un figlio che soffre a causa di una malattia o disabilità ormai conclamata.
Del resto, come sostengono i grandi psicologi che hanno fatto la storia della disciplina, non si può sfuggire a sé stessi e la continuità con noi stessi mi appare, oggi, più che agli inizi della mia storia professionale, un aspetto da valorizzare e non da demonizzare.
Così nel mondo dell’handicap, dove in larga parte ho abitato e vissuto nella mia infanzia e adolescenza, ho mosso i miei primi passi da professionista”
Passi importanti, passi che rendono più ricca la nostra comunità. Grazie dottoressa Rigacci. Grazie Cristina.
L’articolo “Convivo con un corpo malmesso ma aiuto gli altri” la storia di Cristina proviene da SIENASOCIALE.